Untitled.

gennaio 21, 2012

17 Febbraio 2012. Giornata piovosa e noiosa. Lei giaceva sul letto e continuava senza pace a cambiare posizione. Ma c’erano quelle cose che spesso la soffocavano, altre volte la seducevano e che in altri momenti tendeva ad ignorare. Prima di dormire ultimamente passava diverso tempo a pensare a questo o quell’altro, e si facevano le tre del mattino.

Rimaneva incantata a guardare la televisione, quasi tutte le sere. Lo sguardo spento, un bicchiere di latte al cioccolato a scaldare le sue mani, occhiaie sottolineate da un lungo pianto.

Mi raccontava che le giornate che trascorreva erano sempre uguali e quando cercava di organizzare qualcosa di diverso il suo ragazzo era troppo impegnato a studiare per darle ragione. Ultimamente avevano molti problemi e la loro idea di divertimento, di svago era differente. Lui preferiva andare a prendere un aperitivo con gli amici e passare ore a discutere dei tirocini fatti all’ospedale, mentre lei preferiva di gran lunga stare a casa, guardare un bel film o leggere un buon libro. I suoi colleghi spesso la rimproveravano perché si dimenticava di possedere un cellulare, di avvertire quando stava a casa da sola, di sfogarsi quando ne aveva bisogno. Io ogni tanto le telefonavo, ma era davvero perplessa e insicura. Stava svanendo dietro l’ombra che si era insediata nel muro del suo appartamento. Stava spesso in silenzio a capire dove sbagliava e se poteva ancora risolvere la situazione, migliorarla o prendere il coraggio di concluderla. Aveva lasciato i sorrisi dentro l’armadio, assieme ai vestiti che non le stavano più perché ormai portava due taglie in più. Ho provato tante volte a dirle che lei è bella così com’è, di non dar retta a lui, che dopo aver visto i corpi di quelle modelle minute rifugiarsi all’ospedale per chiedere una taglia in più di reggiseno, un naso nuovo e delle labbra carnose, non ricordava più l’aspetto di una donna semplice, che si alzava tutti i giorni alle 5 e prendeva la prima metro per andare in redazione e sfornare pezzi nuovi.

<<Giò, ti devo chiedere un compito extra. Per favore, potresti partecipare alla rassegna che si terrà al Cinema degli Specchi e vedere One Day? Pietro ha chiesto una settimana di ferie, sua moglie sta partorendo, e ho bisogno urgentemente della recensione di questo film. Ti chiedo scusa per il poco anticipo, ma sono veramente nella merda.>>

<<Va bene, Gianluca. Stai tranquillo. Inizia Sabato alle 15.00, giusto?>>

<<Sì, grazie! Sei un tesoro.>>

<<Figurati. Non avevo preso altri impegni. E’ un piacere.>>

Era la sua prima “trasferta”. Attendeva da tempo che le affidassero qualche incarico che le permettesse di partecipare a qualche evento particolare. Oggi Simone sarebbe ritornato a casa per il compleanno di sua madre, e anche se ci fosse stato ormai non faceva differenza. Erano sempre più vicini a scambiarsi soltanto un “ciao”, ad augurarsi “buona giornata”, ma niente baci, nemmeno sulle guance.

Quel pomeriggio decise di indossare le cose che aveva comprato il primo giorno di saldi. La camicia a fiori azzurra e rossa, la gonna a tubino nera, le ballerine rosse e una piccola borsetta nera. Parlava tra sé e sé di fronte allo specchio dicendo <<Capelli sciolti o legati? oggi proprio non hanno fine di sgonfiarsi.>> Ad un certo punto si rese conto di essere in ritardo, così ricontrollò ancora una volta che tutto fosse al suo posto, prese il taccuino al volo e corse a prendere la metro.

Mentre ascoltava un po’ di musica e osservava il paesaggio, ad un certo punto ricevette un messaggio di Simone: <<Giò… potresti chiamarmi un attimo? ti devo dire una cosa.>> Non sapeva nemmeno lei il perché, ma si sentì mancare il respiro. Poi, una volta che si riprese, compose il numero e cominciarono a parlare. Simone stava frequentando un’altra da circa un anno. Giorgia più che arrabbiarsi per chiudergli poi la chiamata rimase in silenzio e ascoltò ogni singola parola che lui ebbe da dirle. Non riuscì nemmeno a piangere. A fine chiamata disse solo un misero sì per rispondere alla richiesta di Simone di lasciargli i suoi libri in una scatola affinché lui potesse passare a prenderli in sua assenza.

Prima di entrare al cinema rimase un attimo ferma. Cercava di ricomporsi, di togliere la pesantezza di una fine dal proprio volto. Era difficile, però si ripeté varie volte che era lì per lavoro e che bisognava essere professionali. La rassegna cinematografica era appena cominciata. Le luci in sala erano basse e quasi inciampò tra le gambe di questo giovane che a dire il vero era un po’ imbarazzato. Appena si sedette fece dei lunghi respiri, cercava di smettere di tremare o avrebbe fatto preoccupare la signora asmatica che le sedeva accanto. Poteva solo arrecare più danni a chi le stava vicino se avesse continuato a comportarsi così. Dunque decise che era il caso di darsi una calmata.

Il film ebbe inizio. Giorgia rimase affascinata dall’alchimia dei due protagonisti, dagli sguardi di Dexter nei confronti di Emma. La loro amicizia, la loro vicinanza anche nei momenti più intensi e meno sereni erano elementi a cui non riusciva a dare un nome. Durante la proiezione viveva sentimenti contrastanti. In alcuni momenti si sentiva come il disinibito protagonista maschile, in altri si sentiva dalla parte di quella ragazza impacciata con gli occhiali rotondi e spessi, non perfetta, ma con una graziosa femminilità. Entrambe volevano diventare scrittrici, andavano a ricercare un’ideale di felicità che molti non condividevano o non avrebbero condiviso. I minuti scorrevano semplici e piacevoli ma ad un certo punto del film accadde qualcosa che la fece piangere come un rubinetto rotto. Sentì un’altra mano sfiorare la sua. Il ragazzo di prima. Anche lui non scherzava, aveva gli occhi lucidissimi, qualche accenno di pianto sugli zigomi, un po’ di rossore sul naso. Le aveva messo un fazzoletto nella mano. Lei fece un sorriso, per poi ritornare a piangere sino alla fine del film. Una volta finito ci fu un piccolo inconveniente in sala: si guastò il proiettore. Per oggi la rassegna si concludeva in questo modo, con tantissime persone che piangevano e la signora asmatica che respirava a stento da quanto era rimasta scossa.

Giorgia si alzò e, dopo essersi data una rinfrescata in bagno, firmò dei fogli che confermavano la presenza della sua testata all’evento. Prima di uscire però si avvicinò a quel ragazzo. Doveva ringraziarlo per il fazzoletto. <<Scusami per il disturbo…Ti ringrazio, davvero. Li avevo scordati a casa. E non immaginavo sarebbe accaduto.>> <<Figurati. Sapevo già a cosa andavo incontro e ho portato con me una confezione di Kleenex. E’ il mio film preferito basato sul mio libro preferito.>> Sorridette e ripeté a se stessa che o lui era gay oppure aveva conosciuto il primo uomo che non si vergognava di piangere in una sala composta da cento posti, tutti occupati. <<Wow. Allora posso dire di essere stata fortunata ad averti vicino in sala.>> Ad un certo punto gli squillò il telefono e si allontanò promettendole che sarebbe tornato il prima possibile. Peccato che fossi arrivata a prendere Giorgia proprio in quel momento e non ebbe nemmeno modo di chiedergli il suo nome.

Le ore che erano passate dalla rottura con Simone sembravano essersi annullate. Era quasi come se fosse distratta, sbadata e in un mondo parallelo, distante. Le avevo chiesto di raccontarmi bene ciò che era successo, ma non aveva molta voglia di parlarne. Mi parlò invece di quel misterioso ragazzo e io la sfottevo dicendole che in realtà si era addormentata al cinema e l’aveva semplicemente sognato.

Decidemmo di mangiare al ristorante messicano situato dietro il multisala. Lei continuava a stare in silenzio e io cercavo di colmare quei vuoti raccontandole del viaggio che avevo appena fatto lungo l’Italia. Annuiva, ogni tanto sorrideva, ma avevo come l’impressione che non mi stesse ascoltando (e in effetti fu così, ma me lo rivelò solo due settimane dopo, alla vigilia del suo viaggio).

Dopo aver mangiato il contorno vidi il suo volto illuminarsi. Mi disse che andava in bagno ma la vidi raggiungere la zona opposta del locale. Non feci in tempo a dirle “stai sbagliando direzione” che lei si fermò a parlare con questo giovanotto dall’aria timida e gentile. Lui le diede un biglietto e poi lei ritornò a sedersi di fronte a me. <<Era lui. Il ragazzo del cinema! Quello del fazzoletto! Mi ha dato il suo biglietto da visita. E’ un fotografo ed è anche il figlio di Gianluca, il mio capo.>> <<Che coincidenza!>> <<Incredibile…>>

Non smisero nemmeno per un attimo di guardarsi. Lei giocava con i capelli ed era il segnale che indicava che provava interesse per un altro essere vivente. Non la vedevo farlo da due anni e mezzo esatti, quando mio fratello le presentò per la prima volta il suo amico d’infanzia Simone, nonché suo ex-ragazzo, nonché grandissima carogna.

Dopo la cena lei decise di tornare immediatamente a casa. Quindi le diedi un passaggio e poi andai dritta a casa a dormire. La mia bambina mi aspettava così come mi aspettavano i libri di sociologia per il mio primo esame universitario. Seppi soltanto il giorno dopo che lui l’aveva già chiamata. Si chiama Antonio e lavorava come photo-reporter alle prime dei film e dei festival musicali sia in Italia che in alcuni Paesi d’Europa. Amava leggere, scrivere poesie, andare al cinema e ascoltare musica anni settanta e un po’ di indie rock attuale. Dopo quella sera si aggiunsero su Facebook, ma Giorgia si collegò poco perché aveva almeno sei articoli da preparare per le due settimane successive e non ebbe modo di parlarci tantissimo.

C’era una cosa che non sapeva, che forse era sfuggita ai suoi occhi. Entrambi dovevano andare, per puro divertimento, al concerto dei Florence and The Machine a Dublino nel mese di Marzo. Ma decisi di non dirglielo perché volevo che provasse di nuovo interesse per le persone, per le cose, per gli attimi strani, pieni di coincidenze, che la vita può ancora offrirci anche quando perdiamo la fiducia che provavamo per lei. Volevo farle capire che si era rialzata da sola, che non avevo parlato con Gianluca e che non avevamo realizzato questo piano malefico per farli incontrare. Volevo farla rinascere, volevo dirle che la mia migliore amica era ritornata e che questo era solo l’inizio di un nuovo percorso strano, a volte tortuoso, ma più sereno del precedente che diverrà soltanto un angolo buio da raccontare nel futuro più remoto, quando il presente sarà passato e sentirà il suo spirito come fortificato, il respiro regolare, come quando era bambina e non doveva pensare a nient’altro che scrivere e sognare.

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aprile 15, 2010

Camminando nel buio, si accorse di essersi smarrita in uno degli edifici più grandi della città. I piedi venivano solleticati dalla freddezza del marmo, e ciò la portava ad accelerare sempre di più il passo. Portava solo un vestitino in raso bianco, lungo sino alle ginocchia. La primavera era soltanto il nome di un periodo che racchiudeva tutte le stagioni, così come l’autunno. In bilico tra un brivido e una vampata di caldo, si sciolse la lunga treccia e lasciò cadere le ciocche lisce e nere davanti, quasi a voler sentire un pò di calore in quel corpo che non riconosceva più la sensazione di una carezza. Una luce iniziava a farsi sempre più forte, e la porta buia iniziava a prendere colore. Una scritta indicava che si doveva oltrepassare solo nel caso in cui ci si sentisse perduti. Nulla era stato più certo che quel sospiro e la scia delle sue orme che, una ad una, oltrepassarono la soglia. La leggerezza inondava il vortice di un mondo sospeso di cui lei era entrata a far parte. La libertà di sognare, di farsi abbracciare dal nuovo universo che cercava di costruire, tassello dopo tassello, e dopo una distesa d’ombre fu posseduta dalla dolcezza di una mano e l’odore di un sorriso. L’assemblamento di un carattere perfetto, il gioco di parole di un uomo semplice e sicuro, la condussero alla fine di un percorso e all’inizio di un risveglio, di un desiderio ormai impiantato.
Il vuoto si lasciava catturare dalla monotonia e la donna decise di andare indietro, nel tempo e nei luoghi, attraversando le membra di quel buio profondo che l’avrebbe fatta ritornare coi piedi per terra.
E la terra di una lunga distesa di fiori giunse a farle capire che si trattava di un sogno, e che era ormai tempo di aprire gli occhi e lasciarsi andare nella realtà.